Rileggere Kipling
I riferimenti muratorii contenuti nei “Jungle Books” (primo e secondo libro della Jungla) del Fr. Rudyard Kipling non hanno certamente una importanza rilevante.
Altre opere offriranno una testimonianza più diretta delle esperienze massoniche dell’Autore, rivelando tendenze culturali e di gusto affini alla nostra tradizione intellettuale quando addirittura non si tratta di brani espressamente dedicati alla Massoneria.
Tuttavia può essere interessante rileggere quest’opera minore, legata per lo più ai ricordi della nostra adolescenza, disponendo di un codice capace di decifrare in chiave massonica certi elementi della sua struttura.
Kipling la pubblicò tra il 1894 ed il 1895, quando già da otto anni faceva parte della Fratellanza: era stato infatti iniziato presso la R.L. Hope And Perseverance di Lahore nel 1886, a soli vent’anni.
Non c’è dubbio che, procedendo alla sua stesura, l’Autore ha avuto presenti le Sue prime esperienze di Loggia; anche se non le ha tradotte, come più tardi farà, in termini immediatamente comprensibili.
L’opera, divisa in due libri, consta di un certo numero di racconti alcuni dei quali a sé stanti, altri (quelli che particolarmente ci interessano) collegati fra loro dal filo conduttore della storia di Mowgli.
Mowgli (il ranocchio) è un bambino di tenerissima età che, per caso fortuito, si perde nella foresta: un branco di lupi lo raccoglie e lo alleva, istruendolo come un proprio cucciolo fino ad ammetterlo come membro della comunità.
Il soggetto non è di una originalità eccezionale.
La figura dell’uomo che vive primitivamente ai margini della civiltà e finisce per intendersi meglio con gli animali che coi suoi simili ricorre abbastanza comunemente nella letteratura di consumo.
Il testo però si distacca dallo stile classico del romanzo di avventure per tentare una impostazione di maggiore impegno che Kipling realizza con un linguaggio semplice e piano, alla portata di tutti.
Sullo sfondo della foresta lussureggiante ed impenetrabile ruota il piccolo mondo di Mowgli, il mondo degli animali selvatici.
Ad essi l’Autore attribuisce indole e personalità di uomini, trascurandone spesso l’aspetto puramente zoologico o adattandolo ai fini che si propone.
Ciò gli permette di sviluppare, accanto agli episodi “d’azione”, interessanti studi di carattere e di impostare problemi di psicologia di gruppo che ancora stupiscono per la loro attualità (bisogna pensare all’epoca in cui il libro fu scritto).
Gli uomini veri, gli uomini a due gambe compaiono solo marginalmente nella storia di Mowgli; la loro partecipazione è spesso limitata alle necessità formali del racconto (giacché le leggi naturali costringeranno Mowgli, suo malgrado, a rientrare infine nel suo ambiente d’origine) ma essi non assumono mai statura di protagonisti.
Kipling approfitta tuttavia delle loro saltuarie apparizioni per proporre un confronto che si risolve a tutto vantaggio degli animali.
“Gli uomini sono sempre uomini, e le loro chiacchiere somigliano al gracidare dei ranocchi in uno stagno”.
Così lapidariamente un lupo giudica la nostra specie.
Lo stesso Mowgli, in varie occasioni, riassumerà in breve frasi crudeli le sue esperienze di convivenza con quelli della sua razza: “Chiacchiere e chiacchiere. Gli uomini sono fratelli di sangue dei Bandar Log (le scimmie)” e ancora: “Sono oziosi, insensati e crudeli. Si divertono a chiacchierare e non ammazzano quelli più deboli di loro per fame, ma per giuoco”.
Difficile credere che Kipling nutrisse in assoluto una così bassa stima della propria razza; si tratta probabilmente di un espediente atto a porre in risalto la maggior serietà di impostazione morale che egli attribuisce, del resto arbitrariamente, agli animali (soluzione di comodo per fare, Lui uomo, un discorso agli uomini).
Perciò il confronto sostanzialmente non esiste: gli animali più nobili rappresentano l’uomo ideale come l’Autore se lo configura, gli animali inferiori sono in tutto e per tutto identici e sovrapponibili agli uomini di basse qualità morali ed intellettuali.
Non a caso gli animali di Kipling sono divisi in gruppi diversi dagli aspetti della personalità e del carattere più che dalle differenze biologiche e razziali.
Non a caso la specie che Egli maggiormente esalta è quella dei lupi.
Il branco di Seeonee è il vero protagonista corale della vicenda, quello che è messo a fuoco più diligentemente.
Governati da leggi sagge la cui violazione comporta l’isolamento o la morte, guidati da un capo la cui attitudine al comando è continuamente verificata, non privi di una primitiva filosofia sociale, i lupi rappresentano per Kipling l’aristocrazia di pensiero della foresta.
Essi si autodefiniscono orgogliosamente “il popolo libero” e dimostrano di meritare tale appellativo.
La struttura organizzativa del branco è sostanzialmente democratica e la sua autonomia è completa.
La stessa volontà di allevare Mowgli anziché mangiarselo (come l’istinto richiederebbe) o abbandonarlo alla sguaiata prepotenza di Shere Khan, rivela una capacità decisionale che presuppone la coscienza della propria libertà e della propria autonomia.
Ma soprattutto i lupi dimostrano le proprie qualità di popolo libero sottoponendosi volontariamente alla Legge non tanto in funzione della severità estrinseca della Legge stessa quanto nella consapevolezza della sua intrinseca necessità sociale.
Ad essi l’Autore presta le più immediate assonanze massoniche.
C’è una precisa regola che condiziona la sopravvivenza del branco; le famiglie, all’epoca degli accoppiamenti, possono anche vivere e cacciare isolate, ma i cuccioli, non appena sono in grado di reggersi sulle zampe, rientrano automaticamente nel branco.
Acciocché ogni lupo adulto li riconosca come fratelli ed essi possano quindi godere delle salvaguardie e dei privilegi che la Legge prevede, essi vengono presentati alla comunità (sorta di primordiale iniziazione) durante una assemblea che si tiene una volta al mese a luna piena sulla Rupe del Consiglio.
Uno ad uno i cuccioli vengono spinti nel cerchio dei lupi adulti mentre il capo ripete l’esortazione a riconoscerli: “Voi conoscete la Legge! Guardate, guardate bene, o lupi!”.
Salta agli occhi l’analogia con quanto avviene nel rito dell’iniziazione massonica.
Il candidato viene fatto passare tra le colonne ed il Venerabile invita i Fratelli del settentrione e del mezzogiorno, dell’oriente e dell’occidente e riconoscerlo.
Ma la vera iniziazione non soltanto formale è subita da Mowgli non appena accettato dal branco come suo membro.
Tre animali si curano della sua educazione iniziatica: Akela (il lupo grigio), Baloo (l’orso), e Bagheera (la pantera nera).
Tre animali che simboleggiano abbastanza scopertamente la Bellezza, la Saggezza, e la Forza, i tradizionali pilastri del Tempio Massonico.
Da loro Mowgli imparerà tutto ciò che gli occorre per inserirsi nel suo nuovo contesto sociale. La dottrina che gli viene impartita riguarda tutti gli aspetti della vita, dalle norme pratiche di comportamento per la soddisfazione dei quotidiani bisogni ai principi etici dell’esistenza individuale e sociale.
Punto di partenza e di arrivo, motore e freno di ogni aspetto della vita della foresta è la Legge, la disciplina ferrea che la natura ha preposto alla conservazione della specie.
Alla Legge Kipling dedica pagine commosse e solenni riuscendo a rendere poeticamente accettabile anche il crudele fatalismo della sopravvivenza che pur comporta la morte dei più deboli.
Nessuno può sottrarvisi impunemente e, del resto, quasi tutti gli animali l’accettano con estremo realismo come un portato della vita medesima.
La Legge è come la liana gigante – dirà Baloo – che capita addosso a tutti e nessuno sa districarsene.
Non mancano anche qui i riferimenti muratorii.
Da Baloo, depositario della saggezza antica, Mowgli impara le “Parole Maestre” di tutti gli animali della foresta, vere e proprie parole di passo che conferiscono a chi le conosce immunità e reciproco diritto di aiuto.
“Noi siamo di uno stesso sangue, io e voi” è la formula, seguita da verso particolare della specie con cui si allacciano rapporti di amicizia.
Forte di queste conoscenze Mowgli supera con relativa disinvoltura le difficoltà ed i pericoli della sua nuova vita.
Accanto ai lupi, maestri di maturità civile, pochi altri animali di rango elevato: la pantera nera, l’emblema della forza coordinata dall’intelligenza, l’orso, depositario della tradizione antica, infine Hathi il silenzioso, l’elefante selvatico, che è un po’ la risultante dei primi due.
Intorno a loro si muove la massa delle bestie inferiori incapaci di elevarsi al di sopra dell’atavismo e dell’istinto, ignoranti della Legge o passivamente sottoposti ad essa senza afferrarne il significato morale.
Shere Khan, il tigre, violento e gradasso, conscio fin troppo della sua forza bruta ma privo di facoltà raziocinanti, specie quando è gonfio di cibo.
Tabaqui, lo sciacallo, detto il leccapiatti, ingordo e pauroso, ruffiano e adulatore, buono solo a servire il potente per nutrirsi dei suoi avanzi.
Mao, il pavone, tutto coda e schiamazzi.
Chil, l’avvoltoio, spietato e macabro.
Infine la moltitudine dei Bandar Log, le scimmie, che l’Autore colloca nel gradino più basso della scala animale; bugiardi e presuntuosi, vanitosi e pettegoli, non hanno capo né grido di caccia (che sono, per Kipling, gli emblemi dello spirito di gruppo), né memoria né iniziativa, ma solo parole sciocche e piccole mani svelte di ladruncoli.
Ognuno di questi animali richiama alla mente un tipo di uomo, un particolare aspetto dell’umano decadimento dipinto sinteticamente ma con estrema chiarezza.
Tuttavia il ritratto di gran lunga più incisivo e potente è quello dei Bandar Log, immagine del qualunquismo morale che ha scritto tante nere pagine di storia.
Ancora oggi chiunque si guardi intorno osserverà con stupore ed angoscia la brulicante moltitudine di piccoli uomini senza memoria del passato e senza capacità previsionali, privi di interessi che superino i loro immediati animaleschi bisogni, ignoranti quanto presuntuosi, superficiali e ciarlieri, mancanti di qualunque idealità e di qualunque filosofia, disposti a nutrirsi di slogans e di luoghi comuni.
Incapaci di concepire, individualmente e collettivamente, i problemi dell’umanità, così i Bandar Log di Kipling che finiscono fatalmente vittime della fredda, ipnotica violenza di Kaa, il pitone.
La forza che Kipling predilige non è muscolare.
La vera potenza, morale oltre che fisica, scaturisce dallo spirito di gruppo, ultimo e più importante postulato massonico dell’Autore.
Lo spirito dei gruppo, inteso come tendenza associativa e come contributo di tutti all’opera collettiva, è implicito nel fatale scadimento del branco di Seeonee che si verifica quando i lupi si abbandonano ad una neghittosa anarchia.
Ancora meglio si compendia nell’episodio dei cani rossi del Dekkan, terribili razziatori che si gettano a plotoni affiancati alla conquista di nuovi territori di caccia.
Il branco, inferiore numericamente, vincerà tuttavia la battaglia non solo grazie alla strategia ed al coraggio di Mogli ma anche in virtù della maggiore coesione morale e del concetto di difesa collettiva (qualità dei popoli liberi).
Battaglia che è, si, una battaglia di sopravvivenza fisica (conservazione della sovranità sul territorio di caccia) ma che non manca, per la abile mediazione di Kipling, di implicazioni morali tanto da apparire quasi la difesa di certi valori intellettuali o comunque di un livello di civiltà.
Se l’Autore fosse vissuto ai nostri giorni, crederemmo forse di scoprire in questo episodio precisi riferimenti a fatti della nostra storia recente; tanto colpisce l’attualità della narrazione.
La forza del lupo è nel branco, la forza del branco è nel lupo, afferma la legge dei lupi di Seeonee.
Tutto ciò, pur essendo ormai acquisito e addirittura ovvio, non avrebbe niente di massonico e resterebbe pura e semplice constatazione del potenziamento collettivo di forze individuali.
Il monito massonico si intende laddove il pericolo comune, la comune paura ingenerano principi, sia pur contingenti e transitori, di uguaglianza e di tolleranza.
“Ognuno ha la sua paura” afferma Hathi.
Quando però una calamità minaccia non questo o quell’animale ma la vita stessa dell’intera fauna della foresta, la Legge prescrive inderogabilmente una sospensione delle paure individuali di fronte al pericolo collettivo.
Così quando la siccità prosciuga la Jungla ed una sola pozza d’acqua rimane in tutto il territorio di caccia, viene proclamata la Tregua dell’Acqua che vieta a chiunque di uccidere presso il luogo di abbeverata (onde tutti possano dissetarsi senza correre il rischio di agguati).
I cervi ed i lupi, i bufali e le pantere bevono l’uno accanto all’altro senza aggredirsi: il pericolo comune ha represso gli istinti individuali per esaltare lo spirito collettivo.
“E’ soltanto – osserva ancora Hathi – quando v’è una unica, grande Paura che incombe su tutti, come adesso, che noi della jungla possiamo dimenticare le nostre piccole paure e radunarci tutti in uno stesso luogo”.
Non è ancora, certamente, il tipo di uguaglianza che noi propugniamo, che prescinde dai pericoli e dalle necessità per elevarsi a valori di pura idealità.
Tuttavia non è poco, per degli animali (specialmente se si considera che, per loro, l’uccidere e l’essere uccisi rientra nel finalismo naturale).
E non sarebbe poco nemmeno per gli uomini, se essi riuscissero a diventare più uniti di fronte ai bisogni ed alle sofferenze dell’umanità.
Questo disse il Massone Kipling, con straordinaria preveggenza e con profondo spirito muratorio, tanti e tanti anni fa.
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