Il Vino, sangue e poesia della terra

Il Vino, sangue e poesia della terra

Se ci si chiede quando è nato il vino, il pensiero deve indietreggiare fino agli albori della civiltà e planare sulla sommità del Monte Ararat, dove Noè si incagliò con l’arca durante le fasi finali del diluvio universale. Scendendo dal monte, ad acque ritirate, Noè vi piantò la vite da lui custodita nell’arca e c’è chi ha affermato che l’armeno Areni noir, sicuramente uno dei più antichi vitigni del mondo, potrebbe essere il diretto discendente di quella vite. Dall’ultima delle nove Storie della Genesi si apprende inoltre che Noè indiscutibilmente gradiva il vino e la circostanza in cui suo figlio Cam lo scopre ebbro e nudo porterà alla maledizione della stirpe di quest’ultimo, episodio mirabilmente rappresentata dall’affresco di Michelangelo Buonarroti  nella Cappella Sistina.

Il termine Vino trae origine dalla parola sanscrita vena – amare – da cui deriva anche Venus, quindi Venere. In ebraico le parole iain, Vino, e sod, mistero, sono strettamente connesse tra loro, al punto che possono essere sostituite l’una all’altra avendo identico valore numerico.

Gli stessi Musulmani, che non consumano bevande alcoliche, a livello di elevata conoscenza hanno dimostrato di apprezzare il Vino. Lo confermano le opere di insigni letterati persiani attivi in periodo basso medievale, tra i quali il poeta Khayyam (1048-1131). Presso i Sufi, massimi iniziati di religione coranica, ancor oggi il Vino simboleggia la conoscenza esoterica, riservata ai pochi eletti depositari dei sacri misteri …

Accompagnando lo sviluppo della civiltà, il Vino figura in molte tradizioni ed è certamente inadeguato considerarlo alla stregua di una comune, piacevole bevanda, dal momento che l’umanità, fin dalle sue origini, vi ha riconosciuto la bevanda per antonomasia, un alimento per lo spirito prima che per il corpo.  Ciò è probabilmente conseguenza dell’ebbrezza che il Vino è in grado di procurare, cui si accompagnano il piacere ed il senso di esaltazione, che anticamente potevano essere di difficile comprensione a meno che non si interpretassero come la capacità del Vino di separare l’anima dal corpo ed elevarla rispetto ad esso. Il poeta mesopotamico Al-Akhtal (640 – 710) scrisse: “L’ebbrezza del vino uccide e fa rinascere: piacevole è la morte che procura, ma ancor più lo è la vita”.

Molte credenze fanno esplicita allusione a qualcosa che, in un lontanissimo passato, avrebbe avuto la facoltà di restaurare e mantenere lo stato di vita primordiale necessario per raggiungere la condizione sovrannaturale, quindi il senso dell’eternità. Cosa che, da una certa epoca in poi, sarebbe andata perduta o nascosta.

Gli Indù parlano del Soma e i Persiani del Haoma: elisir che, contenuti in coppe sacrificali, venivano considerati le bevande dell’eternità, capaci di elargire il dono dell’immortalità a quanti si accostano a loro con particolare disposizione di spirito, nel rispetto di antichissimi cerimoniali esoterici.

Soma è il sostantivo maschile sanscrito che nel Vedismo indica il succo ricavato da una pianta ed oggetto di offerta sacrificale, indica inoltre la divinità collegata alla bevanda stessa e oggetto di tutti i 114 inni del IX libro del Rgveda. Le difficoltà di interpretazione del sanscrito, e la mancanza nei testi di dettagliate descrizioni della pianta, hanno reso difficoltoso l’accertamento della sua reale identità botanica. Sono state di volte in volta indicate diverse piante dalla cui fermentazione e distillazione si ricavano bevande inebrianti, come la vite e la canna da zucchero. Giova ricordare che ogni bevanda alcolica ottenuta dalla distillazione di liquidi zuccherini fermentati di origine vegetale prende il nome di acquavite, dal latino alchemico aqua vitae, cioè “acqua della vita”. Haoma è il termine avestico che indica ancora una pianta sacra da cui si estrae una bevanda rituale, nonché la divinità che questa contiene. Secondo le religioni iraniche e la religione zoroastriana la divinità Haoma, contenuta nella pianta, verrebbe uccisa dalla spremitura effettuata per ottenere la bevanda rituale. Questa, in seguito, veniva bevuta dagli officianti allo stesso modo del soma vedico, con cui effettivamente l’haoma risulta correlato in un sacrifico che si potrebbe definire “di comunione”. Sembra  che tale sacrificio si celebrasse in occasione del solstizio d’inverno, seguendo un mito cosmogonico di rinnovamento che inaugurava l’anno nuovo.

A un certo punto il Soma – Haoma si perse senza poter più essere riprodotto ed è intrigante immaginare un intervento superiore che ha privato l’uomo di un ausilio indispensabile per raggiungere lo stato di vita primordiale, quindi la dimensione sovrannaturale.

I sacerdoti, nei loro riti, dovettero sostituirlo con una bevanda alternativa: il Vino, citato almeno una ventina di volte nelle Sacre Scritture, insieme alla vite e all’uva, e destinato a perdersi nella mitologia dove ha ispirato le leggende popolari, quindi essoteriche, di Dioniso e di Bacco.

Le tradizioni occidentali di origine celtica hanno tramandato la ricerca del Graal, un mito analogo a quello delle Divine Bevande. Il Graal era già presente alle origini del mondo e, dalla Genesi all’Ultima Cena, compare in molte circostanze vetero e neo testamentarie. Nella narrazione biblica il filo logico collega Adamo al Cristo, inizio e fine della Divina Redenzione. Il primo consuma il frutto proibito (l’uva secondo la tradizione mistica ebraica) rendendosi indegno di conoscere il senso dell’eternità e perdendo di conseguenza il possesso del Graal. Il secondo rende agli uomini la dignità dell’antico status attraverso il sacrificio del proprio sangue, che fa bere ai discepoli sotto la specie del Vino derivato dal frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, e contenuto proprio nel Graal, elevato ad elemento concreto ed essenziale attraverso il mistero della transustanziazione.

Gesù opera il primo miracolo pubblico in occasione delle nozze di Cana, una cerimonia conviviale interpretata anche come il suo matrimonio con Maria di Magdala. La trasformazione miracolosa dell’acqua in Vino depone per la centralità della nobile bevanda, considerata essenziale per vivificare un momento che, nella cultura ebraica, rappresenta una vera e propria solennità. Ma perché proprio il Vino? Dal lato esoterico il Vino non rappresenta un semplice ancorché essenziale alimento materico dello spirito. Esso assurge a punto di unione tra il Cielo e la Terra, sintesi della natura umana e divina e fondamento della Redenzione, ma si può anche pensare al recupero simbolico della mensa, dove il calice rappresenta il momento culminante dell’unione. Nell’antichità, a conclusione dei conviti, i commensali erano soliti alternarsi a bere nello stesso calice in segno di solidarietà e fratellanza, ed ancor oggi il sabato ebraico inizia con un atto di benedizione che si fa salmodiando, mentre un calice di vino viene passato a tutti i membri della famiglia. L’usanza di bere Vino “alla salute” dei vivi deriva molto probabilmente dall’antico rito religioso di bere in onore degli dèi e dei defunti. Ai pasti i greci e i romani versavano libagioni agli dèi, e ai banchetti cerimoniali bevevano in onore degli dèi e dei defunti. Il brindisi è pertanto, probabilmente, un vestigio non religioso di antiche libagioni sacrificali in cui un liquido sacro veniva offerto agli dèi: sangue o vino in cambio di un desiderio, una preghiera sintetizzata con le parole: “lunga vita!” o “alla salute”!

Per quanto attiene la nostra Istituzione, i banchetti massonici hanno lo scopo di consolidare l’amicizia e la solidarietà tra i Fratelli della grande Famiglia massonica. Agape deriva dal greco e significa “amore”, l’amore che unisce i Fratelli e che ognuno sente per il Fratello che gli siede accanto. L’amore che viene suggellato dalla polvere forte rossa o bianca (cioè il vino) nei sette fuochi (brindisi) da effettuarsi durante l’agape rituale.

Sebbene tale numero possa variare a seconda delle consuetudini, o della volontà del MV, per ultimo viene costantemente eseguito il Brindisi del Guardiano, nel quale il calice con il Vino è dedicato  “a tutti i Fratelli Liberi Muratori, sparsi sui due emisferi e sempre uniti nella prospera come nella avversa sorte”; brindisi celebrato anche da Rudyard Kipling ne “La Vedova di Windsor’, che così si conclude: «… e poi per i Figli della Vedova / dovunque e comunque essi si trovino / se è ciò che desiderano: / un immediato ritorno alle loro case».

Fr:.

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